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Prefazione
L’esperienza dei campi di prigionia in Germania domina tutta la prima parte del romanzo breve, il caso Arpur, scritto da Andrea Carli all’inizio degli anni ’60 e premiato come opera inedita ad Adria nel 1964: Hohenstein, Dortmund, Fullen, il pellegrinaggio del giovane uomo, protagonista della narrazione, che l’8 settembre si trovava a fare il soldato presso un deposito di fanteria in una caserma di Merano e che come molti altri giovani militari italiani, lasciati senza direttive dal governo Badoglio, venne arrestato dai nazisti e condotto nei campi di lavoro tedeschi. La seconda, si snoda in Italia, quando Arpur ritorna al proprio paese, dopo aver subito la terribile esperienza del quotidiano nei campi di lavoro, imposta dai tedeschi ai deportati militari e dopo essere stato vittima di uno sconvolgente esperimento nazista, volto a privare l’uomo sia del proprio aspetto sia della propria individualità, che ne marchierà a fuoco l’esistenza. Quanto ci sia di Andrea Carli, che come tanti giovani era stato richiamato alle armi e che l’8 settembre 1943, ad appena 24 anni, era stato fatto prigioniero dai tedeschi e condotto in Germania, dove era rimasto sino alla fine del conflitto, non è dato realmente saperlo. Schivo nell’affrontare un argomento legato ad una esperienza tanto drammatica, l’autore, più che ammettere di ripensare ogni giorno alla vita nel campo di prigionia, a parole non volle fare, sostituendo il suono della sua voce con l’opera letteraria e pittorica.
Un personaggio però, il giovane emiliano Davide Anselmi, sergente, universitario in lingue, come Arpur appassionato dello scrivere, che preferisce il lavoro forzato nel campo, piuttosto che fare l’interprete dei tedeschi, può essere individuato come la figura che per forza, sensibilità, talento corrisponde all’autore il quale, con “il Caso Arpur”, tramanderà ai posteri, con profondità ed evidente capacità di introspezione psicologica e con altrettanto evidente volontà di descrizione storica, la terribile realtà dei campi di prigionia. Un vero pioniere Carli, che con un espediente letterario raffinato, quasi a voler indicare un legame, in quegli anni ancora molto lontano dall’essere affermato, tra la deportazione ebraica, messa in atto dai nazi – fascisti e quella dei militari italiani, lasciati allo sbando da Badoglio e dalla monarchia e alla mercé della rabbia degli ex alleati nazisti e della loro volontà di vendetta, proprio nelle prime righe del racconto, precisa che il cognome Arpur era dovuto alla probabile antica origine ebraica, forse tedesca o austriaca dell’uomo, un umile italiano che rendeva esemplare, nella storia della propria famiglia, il coacervo di genti che avevano formato il popolo italiano. Un precursore anche per avere trattato e reso pubblico con grande anticipo, rispetto agli studi storici, il tema della cosiddetta “Altra Resistenza” quella appunto dei militari italiani internati in Germania, che Alessandro Natta, politico e letterato, anche egli ex internato militare, aveva affrontato in un suo studio già nel 1954, ottenendone, però, la pubblicazione solo nel 1997 per i tipi di Einaudi. Natta, in quel volume, spiega con chiarezza perché la vita di questi militari italiani, che non vollero arrendersi a combattere per la Germania, sia stata tanto dura, precisando che il Terzo Reich non riconobbe l’applicazione della convenzione di
Ginevra, inizialmente, agli appartenenti all’Armata Rossa e, in seguito, gli italiani traditori. Per loro l’esperienza della prigionia finì, quindi, per presentare aspetti che la rendevano più simile a quella dei campi di concentramento (non dei campi di sterminio in senso stretto), in cui il regime nazista relegava avversari politici e razziali o lavoratori forzati, che ai normali campi di prigionia e venne caratterizzata da condizioni di vita particolarmente dure, a volte drammatiche. Ed è proprio la particolarità di quell’esperienza che viene raccontata con una precisione che non lascia dubbi sulle sofferenze fisiche, morali, psichiche alle quali gli “internati militari”, in una condizione sospesa tra quella del prigioniero politico e militare, si trovavano a vivere. Le pagine di Carli che trattano direttamente la vita nel campo di concentramento diventano, allora, una vera e propria testimonianza e trasmettono, proprio a causa del coinvolgimento dell’autore, in maniera particolarmente efficace, una serie innumerevole di informazioni sulla vita nei campi. Come i soldati venivano accolti, le insopportabili condizioni di vita, le giornate di duro lavoro iniziate all’alba e terminate con un misero rancio che fiaccava i poveri corpi ogni giorno di più. La sofferenza, la malattia, la morte divenute compagne di strada abituali; la natura, unico bene al quale attingere per poter trovare la forza di iniziare un nuovo giorno. E i compagni di vita, italiani, americani, polacchi, inglesi, francesi, uniti, senza bisogno di troppe parole, dal dolore, dalla paura, dalla sofferenza: una rete fitta di solidarietà, capace di sorreggere, di nascondere, di sostituirsi a chi si fosse ammalato nel lavoro, raddoppiando il proprio, per consentirne la ripresa, per salvargli la vita. Il tema della fame che diventava quello della stessa esistenza di quegli uomini, considerata
quasi nulla dai nazisti, al punto che come scrive la storica Gabriele Hammermann, nel suo volume “Gli internati militari italiani. 1943-1945”, edito nel 2004 da Il Mulino, man mano che la guerra continuava e con essa aumentava la necessità di produzione, le condizioni di vita si facevano sempre più pesanti, aggravate dal vorticoso proliferare delle ore di lavoro, non supportato da un equivalente e necessario incremento del vitto. La fame, che rendeva gli uomini sempre più deboli ed emaciati, la sporcizia, il freddo, i pidocchi: una vita, raccontata in opere letterarie ed interviste anche da Mario Rigoni Stern, come Carli recluso nel campo di Hoenstein, che portava gli internati a contatto diretto con la disperazione. Per continuare a sperare, per vincere la partita della vita e “resistere”, l’orgoglio di non scendere a patti con un nemico tanto scellerato, l’unione con i compagni di dolore, ma forte, fortissimo su tutto il richiamo della poesia e della letteratura, scritte e condivise, capaci di fermare per sempre quegli attimi drammatici di vita e quelle emozioni così estreme. Poesia, letteratura, pittura, le tre arti che Andrea Carli, così schivo in vita, ha saputo usare per far giungere sino a noi quei ricordi, perché non dimentichiamo ciò di cui siamo stati capaci solo settanta anni fa.

 

Antonella Guarnieri

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