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Andrea Carli, Il caso Arpur, Ferrara, Edizioni Tresogni, 2014

 

L’autore e il suo protagonista: un romanzo postumo di Andrea Carli (1919-1990) racconta la terribile esperienza di un internato in un lager nazista.

La dimensione della sofferenza ingenerata dalla protervia nazista, necessita oggi di essere indagata, riconvocata e approfondita, a dispetto delle demenziali teorie dei negazionisti, secondo cui l’Olocausto è il frutto di una macchinazione degli storiografi per mistificare ciò che di fatto, secondo loro, non avvenne. E qui inevitabilmente monta l’indignazione. Leggere il libro di Andrea Carli quando si soggiace a questa indignazione, non può che obbligare il lettore a leciti raffronti: rievochiamo pure le atmosfere tetre dei lager nazisti per calarci nei fatti orribili che si consumarono all’epoca, ma domandiamoci anche per quale ragione oggi c’è gente infatuata dell’idea di quella stessa violenza. E che per non darne conto, la nega. La testimonianza letteraria di Andrea Carli in questa ricerca del clima cupo che pervase l’esistenza degli internati, è assolutamente preziosa; e perché Carli la protervia nazista la subì personalmente, e perché la compostezza stilistica e il rigore formale presenti in queste pagine, acquisiscono grande pregnanza per chi legge, dovendo, chi legge, misurarsi con gli aspetti psicologici della sofferenza di chi scrive. Non possiamo di fatto sottacere il raccapriccio che destano nel lettore certe descrizioni, le torture gratuite inflitte da carnefici senza scrupoli, le costole delle vittime spezzate con il calcio di un fucile, gli interventi chirurgici in laboratori improvvisati, apparentemente senza senso. Apparentemente, sembra dirci Carli: perché lo scopo sadico di quegli interventi chirurgici, nel caso del protagonista del romanzo, è quello di produrne l’annientamento, di annullarne la stessa personalità e l’identità, di cambiargli fisicamente i connotati. I carnefici agiscono già come proto-negazionisti, per cancellare fatti evidenti e poi destinare la loro vittima ad una società dove la mancanza di un’identità e la spersonalizzazione, anche quando la si è subita per effetto della crudeltà nazista, è duramente condannata. Ciò che si genera nella psiche del protagonista, e dell’autore, è una terribile persuasione, e una conseguente condotta di vita: l’anonimato come felicità. È il noto precetto del “vivere appartato” di Epicuro: la politica è un inutile affanno, quindi: vivi nascostamente. Ma a questo Arpur è stato indotto, e se avviene non è per suo desiderio né per sua volontà. Il tutto sembra condensarsi in una personalissima consapevolezza, espressa nell’incipit dell’XI capitolo: Ad Arpur non rimaneva dunque che adagiarsi nel nulla. Con lui, quindi, il nazismo era arrivato alla soppressione dell’io. C’era arrivato per vie esterne, puntando su facili trucchi, come quello delle alterazioni plastiche e della conquista dell’opinione pubblica”. Quello dell’omologazione culturale finalizzata a qualcosa di torbido, è un concetto attualissimo. Sono dunque pagine cariche di evocazioni forti e di fatti insospettabili, specie per chi si avvicina al testo con l’animo del lettore abituato alla cosiddetta “narrativa di situazione”. Qui non abbiamo una “narrativa di situazione”, ma abbiamo un autore che si distingue per la capacità di penetrare e descrivere umanissimi e ambivalenti sentimenti, insistendo molto sulla tenacia e la perseveranza del protagonista e alternandola con la sua rassegnazione di fronte ad eventi che sono percepiti come inevitabili. Almeno fino alla parte conclusiva, con la rinascita dell’amore, della sensualità e altri suggestivi colpi di scena. Il libro di Carli si inserisce a pieno titolo, e con un’attualità straordinaria, nel filone  di quei testi letterari dove la memorialistica è di supporto all’impegno civile, utile a rigettare le tesi del negazionismo, contrastando sul piano ideologico, ma anche sul piano del buon senso, gli atti sacrileghi dei naziskin ed altri dementi che oggi si ispirano al nazismo. Ciò che Carli descrive – ma morì troppo presto per poterlo appurare – sembra avere un seguito ai nostri giorni, come se dovessimo teorizzare su fatti per capirne non la gravità, ma la veridicità. Il romanzo di Carli, pur nell’espediente letterario, in realtà scava a fondo sulla perdita della memoria storica di quanto avvenne settant’anni fa. Perdita che purtroppo persiste nella contemporaneità: oggi, ad esempio, c’è una perdita della memoria storica rispetto alla meritevole azione di quanti in passato si sono impegnati in favore di una cultura di pace, nel tentativo di affossare quella di guerra. Pensiamo a Gandhi e agli stravolgimenti storico-ideologici che la sua protesta ha causato. Nella nostra pseudo-cultura, quando è spicciola, si dice spesso che chi mena per primo mena due volte. Gandhi sosteneva invece che alla base della non violenza vi è il fondamento di un principio espresso peraltro anche nella parabola evangelica dell’altra guancia. Offrire l’altra guancia a chi ci percuote, vale spesso a ridurre la portata della violenza del nostro aggressore. Ha cioè funzione lenitiva nell’aggressore, ne stravolge lo schema mentale e genera un corto circuito nel cervello di chi invece si aspetta una prevedibile azione difensiva da parte dell’aggredito. E non è ciò che mette in atto, e non del tutto inconsciamente, il nostro Michele Arpur, protagonista del romanzo di Carli, quando prende atto del suo destino? Non è questo che fa, dopo essersi limitato a sputare in viso al medico che lo ha operato per cambiargli la fisionomia? Se non si conoscono libri come questo, se ne ignoriamo le tematiche, nel tempo i nostri giovani parteciperanno inconsapevolmente ad un nocivo processo di despiritualizzazione della società, attraverso l’implicita accettazione di nuove religioni che a seconda dell’utilità si alimentano o alla fonte dell’idealismo o alla fonte del materialismo. Se è vero come è vero che ogni idea per poter essere accettata o posta in serrata dialettica con altre idee deve incarnarsi in qualcosa o in qualcuno, Andrea Carli ci fornisce oggi un formidabile strumento di riflessione. L’impianto narrativo del racconto lungo di Carli è costruito su alcuni snodi puntuali che fanno de Il caso Arpur un godibilissimo testo letterario. Si pensi al continuo insistere sul paesaggio, con descrizioni che assumono nel testo un andamento filmico, scenico, come se il lettore fosse davanti a frequenti panorami colti di sfuggita, ma in realtà destinati a fissarsi nella mente come stato d’animo del protagonista – e del lettore – più che come specifica condizione geografica. È un po’ come dire: «Guardate, questo era il contesto ambientale delle cose, questa è la realtà, la cornice, il fondale che avevamo attorno quando subivamo le efferatezze e le angherie di chi deliberatamente voleva umiliarci e farci soffrire. E qui si svela, per istintiva associazione, la propensione letteraria e poetica di Andrea Carli, che sempre coltivò le lettere. Carli nel lager sperimenta direttamente, sul piano sensoriale e psicologico, gli effetti di quella natura di leopardiana memoria, bella e prodigiosa ma immota, insensibile e indifferente davanti al male del mondo: Sta natura ognor verde, anzi procede / Per sì lungo cammino / Che sembra star. / Caggiono i regni intanto, / Passan genti e linguaggi: ella non vede: / E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

Ecco il valore della cultura, oggi. E Carli, di solida formazione umanistica, lo aveva intuito. La cultura come presidio alla barbarie, come baluardo alla despiritualizzazione della società. Che è purtroppo in atto, pericolosissima. Andrea Carli oggi ci fornisce uno strumento culturale valido per combatterla. Usiamolo.

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